Cina: più opportunità o paure con la privacy policy?

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La Cina ammira e spaventa nella politica riformista di Xi Jinping: quali opportunità e paure si stanno presentando per la sicurezza degli individui?

La Cina da ammirare, la Cina da evitare

La Cina non si conosce mai abbastanza. Molto semplice.

La Cina è un Paese, grande come un continente e che riunisce culture diverse, che da sempre ci affascina, ci spaventa, ci incuriosisce e che colpisce ciascuno di noi in maniera diversa.

La Cina non si conosce mai abbastanza, d’altro canto siamo europei ma molti di noi non conoscono l’Europa, le diverse culture che la compongono e la nostra storia, figuriamoci quella cinese.

La Cina non si conosce mai abbastanza: ha dimensioni impressionanti; forti contrasti tra aree urbane e rurali; tecnologia evoluta e manifattura arretrata; fascino dell’antico e velocità della modernità; desiderio di riformarsi e volontà di mantenere un forte controllo sul sistema sociale; coerenza nello sviluppo della strategia a livello di Paese; lo Stato visto come la famiglia.

La Cina non si conosce mai abbastanza, però qualche riflessione s’impone. Xi Jinping ha avviato una politica riformista che attua attraverso una strategia globale e che ha già impattato fortemente su Africa e Sud America oltre che Asia; la scala dimensionale permette alle aziende di fare ricerca e sviluppo come le nostre PMI non possono permettersi; la bassa sensibilità sui rischi e sui sistemi di controllo fa sì che le aziende siano più flessibili ma facciano pagare alla collettività un prezzo impressionante in termini di sostenibilità; l’inquinamento è talmente elevato che gli investimenti in bonifiche e le ricadute sanitarie hanno richiesto nello scorso quinquennio 200 miliardi di dollari (il doppio della Belt and Road Initiative) e, secondo alcune stime, richiederanno un impegno 4 volte superiore per i prossimi cinque anni; le condizioni di vita molto diverse tra chi risiede nelle aree urbane e coloro che vivono nelle zone rurali potrebbe generare forti tensioni sociali; la dimensioni degli investimenti pubblici finalizzati al rafforzamento del vantaggio competitivo (anziché al sostegno della domanda interna) sono superiori a quelli previsti dall’UE; la crescente domanda di benessere della classe media emergente sta cambiando molto velocemente i modelli di produzione e di consumo.

Ciascuno di questi temi meriterebbe un approfondimento; tuttavia, una considerazione particolare la dedichiamo al trade off tra istanze di sicurezza e rinuncia parziale alla propria privacy.

Nel 2016 nella nostra UE è stato introdotto il regolamento per la protezione dei dati personali, che purtroppo in Italia è stato letto come un ulteriore inutile orpello che burocratizza le imprese e che si risolve con il supporto di consulenti troppo spesso improvvisati. Gli USA stanno seguendo la stessa linea. Il Senato americano si sta ispirando alla normativa europea per affrontare la questione dei dati personali. Tim Cook, CEO di Apple, alla quarantesima conferenza sulla privacy ha detto che “le nuove tecnologie stanno facendo cose grandiose, prevengono e combattono malattie, danno accesso a informazioni e opportunità economiche come mai era stato possibile prima. Ma abbiamo avuto modo di vedere anche come possano invece essere una minaccia invece che un aiuto”.

Si tratta solo di un’opportunità per i consulenti o l’ennesimo motivo per generare nuovi vincoli per le imprese?

“La libertà è fondata sulla privacy” dice Ann Cavoukian, Executive Director of Privacy and Big Data Insititute at Ryerson University “non è casuale che la Germania sia il Paese guida nella privacy e nella protezione dei dati. Loro hanno dovuto sopportare gli abusi del terzo Reich e la completa cessazione di tutte le loro libertà a causa della privazione della propria privacy”.

E in Cina?

A Shanghai (una città che nell’ultimo censimento del 2010 contava oltre 23 milioni di persone e che secondo alcune stime sarebbero diventate circa 34 milioni) si ha una chiara percezione di sicurezza. Ma qual è il costo sociale di tutto ciò? Ovunque ci sono videocamere collegate a sistemi di riconoscimento facciale e a evoluti sistemi di analisi predittiva del comportamento basati sull’intelligenza artificiale (AI). Chi non vorrebbe vivere in un contesto sicuro e chi, invece, non vorrebbe vivere in un contesto in cui pochi hanno il controllo totale della vita degli individui?

Nel dicembre 2016 The Economist pubblicava un articolo dal titolo “China invents the digital totalitarian state” e l’occhiello era, se possibile, ancora più inquietante: “Big Data, meet Big Brother”. Nell’interessante inchiesta s’indaga sulle preoccupanti implicazioni del progetto sui cosiddetti “crediti sociali”.

Attenzione che, anche nel mondo occidentale, ciascuno di noi è sottoposto a una valutazione del merito creditizio, sono disponibili dati sul nostro stato di salute, sui nostri rapporti con la pubblica amministrazione (compresa la Magistratura), sui nostri spostamenti, sulle nostre abitudini di acquisto e così via. Fortunatamente, o forse intelligentemente, questi dati non sono incrociati da un governo che li utilizza per addivenire ad un social credit scoring. Fortunatamente il legislatore europeo si occupa da almeno un ventennio di regolamentare il possesso, l’utilizzo, la conservazione e la cancellazione dei dati personali.

Sta poi a ciascuno di noi attuare la normativa in maniera pragmatica, con un approccio basato sui rischi e non solo sulla forma. È nostro compito attuare una modalità che faccia comprendere che se la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea recita che “ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano” non dobbiamo preoccuparci solo di essere formalmente in regola bensì di trattare un tema alla base della libertà degli individui. È nostra responsabilità gestire i dati come una risorsa imprescindibile per le nostre aziende ma tutelando il valore più grande: la persona.

Purtroppo anche in Italia stanno spuntando software che promettono la conformità in pochi click ed esperti della protezione dei dati che assolvono il loro compito compilando dei form preimpostati e scaricati dalla rete. È sicuramente l’approccio sbagliato. Ma, al di là del modo di affrontare il problema, sarebbe stato sicuramente molto più grave non regolamentare affatto o, peggio, istituzionalizzare l’utilizzo dei dati personali da parte delle imprese o dello Stato rischiando la facile deriva totalitaria.

Algoritmi elaborati e raffinati attraverso l’AI potrebbero fornire informazioni da sottoporre a successive valutazioni soggettive espresse da persone incaricate di definire il “credito sociale” di ciascun individuo. George Orwell settant’anni fa ci aveva messo in guardia dalla perdita di libertà per mano del grande fratello. Oggi credo dovremmo valorizzare maggiormente la difesa della nostra libertà che, inevitabilmente, passa dalla difesa dei nostri dati personali

Dovremmo stigmatizzare l’uso improprio dei dati personali e della privazione delle libertà individuali e, al contempo, ricercare un punto di equilibrio per tutelare la sicurezza della collettività.

Un tema che sarà al centro del dibattito politico, culturale e manageriale se è vero che “Oggi lo scambio dati/privacy è esploso diventando un’arma dall’efficienza militare. Milioni di decisioni vengono prese in ogni istante in base ai nostri like, alle nostre conversazioni, ai nostri desideri e paure. I dati vengono assemblati e venduti. La conseguenza estrema è che le aziende conoscono i cittadini meglio di loro stessi. Questa sorveglianza di massa serve solo ad arricchire poche aziende che collezionano i dati”.

E se le nostre paure fossero note e utilizzate da un governo? Forse a Shanghai, come in altre città, si potrebbe cominciare a percepire un senso di profonda insicurezza.

La Cina non si conosce mai abbastanza ma è da ammirare lo sforzo titanico che sta compiendo per migliorare le condizioni di vita di milioni di persone. Al contempo dovrà evitare che il desiderio di controllo sconfini nella perdita di libertà delle persone.

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Roberto Maggi

Roberto Maggi

Roberto Maggi, partner di PK Consulting, società di consulenza manageriale specializzata in gestione della compliance, e di Probitas Srl, Academy per formazione qualificante in tema di 231, risk e compliance. Esperto in LeanCompliance®, metodologia proprietaria che ha permesso alle aziende che l’hanno applicata di migliorare il livello di conformità alle normative cogenti e volontarie, rendendo i processi più snelli ed efficienti, Roberto ha un’ampia e pluridecennale competenza consulenziale in aziende di diverse dimensioni e molteplici settori merceologici ed è inoltre membro di diversi organismi di vigilanza (OdV) nonché auditor qualificato. Laureato in Economia e Commercio, ha successivamente conseguito l’MBA presso l’Università Bocconi di Miano.

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