“Questo prodotto è etico”: così le aziende evitano i controlli e vendono i pomodori dei caporali

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L’inchiesta della Procura di Lecce sulla morte di un bracciante ha svelato una filiera fuori controllo: “Alle aziende basta un’autocertificazione per finire sulle tavole degli italiani”. Coinvolti noti marchi nazionali.

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Basta una croce nella casella giusta per dichiarare che non si utilizza manodopera irregolare. E far arrivare alle multinazionali delle conserve, e da qui – sotto forma di pelati o salsa – sulle tavole degli italiani, i pomodori raccolti nei campi del Salento da migranti spesso schiavizzati. Solo una X per attribuire eticità alla filiera agricola, e risparmiare quei controlli che porterebbero facilmente alla luce l’esistenza di caporalato diffuso e lavoro nero.

Lo ha scoperto la Procura di Lecce nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Abdullah Mohamed, un bracciante sudanese di 47 anni, stroncato dal caldo nei campi di Nardò (Lecce) il 20 luglio 2015. Quel giorno il termometro segnava 40 gradi. Abdullah accoglieva pomodori, non aveva cappello né guanti, non una bottiglietta d’acqua, né una tettoia sotto alla quale ripararsi di tanto in tanto.

Non aveva neppure un contratto e, della sua morte, la pm Paola Guglielmi ha chiamato a rispondere il titolare dell’azienda per cui lavorava, Giuseppe Mariano, e il caporale sudanese che l’aveva ingaggiato, Mohamed Elsalhil. Li accusa di omicidio colposo e caporalato, li vuole processare, dopo che a luglio di quest’anno la stessa Procura ha incassato tredici condanne, con pene tra i 4 e gli undici anni, per imprenditori pugliesi e caporali accusati di aver ridotto in schiavitù centinaia di braccianti.

Oltre alla tragica morte di Abdullah, però, l’inchiesta salentina ha portato alla luce l’esistenza di una filiera fuori controllo, fatta di pezzi che autocertificano singolarmente la bontà del proprio operato. I carabinieri del Ros di Lecce hanno seguito il filo dei pomodori della ditta Mariano e scoperto che, per molti anni, sono stati venduti ad aziende di lavorazione tra le più importanti d’Italia: la Mutti Spa di Montechiarugolo (Parma), la Rosina di Angri (Salerno) e Conserve Italia società cooperative agricole di San Lazzaro in Savena (Bologna).

“Nessuna delle ditte acquirenti è iscritta nel registro degli indagati”, chiariscono dalla Procura di Lecce, ma dalle carte emerge prepotente il problema dei controlli: “Ne servono di più – aggiungono gli inquirenti – e anche più sanzioni”. Le stesse che chiede l’associazione No Cap, fondata dal camerunense Yvan Sagnet, che proprio a Nardò nel 2011 guidò il primo sciopero dei braccianti e oggi si batte per la creazione di una filiera più corta e controllata.

Sono proprio le ditte lambite dall’inchiesta di Lecce, del resto, a precisare che i controlli avvengono solo sui documenti forniti dai produttori locali, e non certo nei campi. Maurizio Gardini, presidente di Conserve Italia, spiega: “Le imprese dalle quali compriamo il prodotto firmano un protocollo di legalità. Si impegnano a osservare le norme in materia di sicurezza e salute sul lavoro, i contratti collettivi nazionali, la normativa previdenziale e quella in materia di lavoro degli immigrati. Non possiamo sostituirci all’Inps o alle forze dell’ordine”. Stesse giustificazioni arrivano dagli altri due colossi del pomodoro.

Tradotto, significa che la piccola impresa locale rassicura la grande ditta nazionale, come faceva appunto l’impresa Mariano (formalmente intestata alla moglie di Giuseppe, Rita De Rubertis). Nella scheda di adesione al piano di qualità di Conserve Italia si dichiara “di non utilizzare lavoro minorile o forzato, di garantire la salute e sicurezza dei lavoratori, di rispettare le norme in tema di orari e retribuzione”.

Un falso evidente, secondo la Procura salentina, considerato che Abdullah – e decine di altri come lui – non era stato sottoposto ad alcuna visita medica, lavorava 10-12 ore al giorno per pochi euro, in condizioni climatiche usuranti e senza diritto al riposo settimanale, alloggiando in casolari fatiscenti e in condizioni igieniche degradate. E che proprio questa condizione di sfruttamento consentiva al datore di lavoro di incrementare i profitti.

Di tutte queste irregolarità, però, i giganti del pomodoro clienti della Mariano affermano di non sapere nulla. E solo dopo la morte del bracciante hanno rescisso i contratti con l’azienda, che per diversi anni ha percepito anche i contributi pubblici dell’Agea.

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