Brand and reputation

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Tante le volte che ho visto citata la frase di Benjamin Franklin: “It takes many good deeds to build a good reputation, and only one bad one to lose it”.
Recentemente però mi sono imbattuta in una citazione del UK chief executive dell’agenzia Ogilvy Public Relations e l’ho trovata altrettanto semplice ma efficace nel messaggio “Reputation is built on three things – what you say, what you do and what others say about you when you’re not in the room”.

Le organizzazioni hanno ormai raggiunto la consapevolezza dell’importanza, del valore del brand; un asset importante tanto quanto, e in alcuni casi anche più, dei prodotti o servizi offerti. Esso contribuisce fortemente a formare la percezione del valore del prodotto offerto nel mercato, nei clienti, ad indirizzare le loro scelte di acquisto e la loro fiducia e loyalty. Brand forti sono costruiti sull’esperienza e la fiducia, dei clienti, dei consumatori, degli investitori, degli stakeholder in generale.

Il brand è intrinsecamente correlato ai valori di un’azienda, al suo modo di operare, alla sua reputazione. Brand e reputazione sono asset strategici e sono così interconnessi che le aziende sempre più stanno investendo e adottando approcci proattivi e di lungo termine per proteggerli.

Secondo “BrandZ™ Top 100 Most Valuable Global Brands1 2016, pubblicato da WPP and Millward Brown, il valore delle BrandZ™ Top 100 Most Valuable Global Brands è aumentato progressivamente negli ultimi undici anni, fino a raggiungere 3.4 trilioni di dollari, il 133%, tra il 2006 e il 2016, e ciò nonostante la globale crisi economica.

Come le organizzazioni approcciano la brand reputation, misurano il suo valore, identificano quali sono  rischi da cui proteggerla e come farlo, sta attraversando ormai una grossa trasformazione.

In linea generale le organizzazioni si trovano oggi a doversi confrontare con le continue preoccupazioni da parte degli stakekolder, consumatori in particolari, in relazione a temi quali qualità, sicurezza/salute del prodotto, incluse la tracciabilità e trasparenza di tutte le sue componenti, protezione dati/privacy, rispetto dell’ambiente, governance e condotta di business. A ciò si aggiunge  la velocità e capillarità della comunicazione: internet, social media, 24-hour news networks, etc.

La valutazione dei rischi reputazionali e la misurazione del valore della reputazione  resta ancora oggi difficile, poichè, nonostante vari tentativi e standard prodotti, gli elementi restano di natura ampiamente qualitativa. Tuttavia, ignorarne l’importanza e non impegnarsi nell’adottare approcci di risk management e accountability interna ed esterna può essere costoso per le aziende.

Il disastro ambientale generato da BP nel Golfo del Messico nel 2010 e lo scandalo di natura contabile che ha coinvolto la catena inglese di supermercati Tesco nel 2014 sono solo due esempi di come un evento a forte impatto reputazionale si sia ampliamente riflettuto sul brand, e non solo nel breve ma anche nel lungo termine, dato l’effetto prodotto sui profitti e il crollo del prezzo delle azioni.

Immediatamente a seguito dell’evento nel 2010 il prezzo delle azioni di BP risultava dimezzato, anche a fronte della qualità delle affermazioni pubbliche prodotte per spiegare e coprire il disastro generato; cinque anni più tardi il valore restava ancora inferiore del 25%. Anche Tesco ha visto il valore delle azioni dimezzarsi, accompagnato da una drammatica perdita di quote di mercato che ancora oggi si trova ad affrontare.

Sono ormai tante le organizzazioni che hanno compreso da un lato il legame esistente tra brand e reputazione e dall’altro la necessità di allargare approcci di risk management, tradizionalmente adottati per i rischi finanziari ed operativi, anche proprio alla gestione, o meglio prevenzione, dei rischi di natura reputazionale. Tante le organizzazioni che hanno allargato la prospettiva delle variabili di rischio da considerare e hanno integrato tale prospettiva anche nei processi di planning strategico e di budgeting. Tuttavia ciò di cui molte aziende ancora non riescono ad avere piena capacità, conoscenza è la valutazione del livello di investimento da affrontare e quale sia il suo beneficio misurabile. Quando tale beneficio non è abbastanza chiaro da giustificare gli investimenti, i manager tendono facilmente a ripiegare su iniziative che garantiscano risultati immediati, a breve termine, nonché i propri stessi ruoli all’interno dell’azienda.

E ancora molte sono le organizzazioni che affrontano in modo non adeguato la protezione del brand e della reputazione, concentrandosi più sulle minacce già affrontate; ma ciò non è risk management quanto più crisis management, un’attività importante ma di natura reattiva, di mero contenimento del danno più che di prevenzione e visione strategica.

Probabilmente non esiste un unico approccio e ogni organizzazione deve trovare il percorso per essa più coerente ed efficace, ma il trend da sembra quindi chiaro: un risk management strategico, di lungo termine e sempre più capillare e integrato nei processi decisionali ed operativi.


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