Io PKer in quarantena

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Da anni in PK si lavora in smart working, per noi non è stata una novità e abbiamo infatti continuato ad operare con normalità; la novità è stata il doverlo fare in quarantena, una condizioni difficoltosa per tutti. Vogliamo quindi condividere con voi il pensiero di una PKer, una riflessione che infonde positività e speranza nel futuro, che racchiude il sentimento di tutti noi PKers. Buona lettura.

 Se il computer, a detta di Steve Jobs, è la “bicicletta della nostra mente”, la quarantena che stiamo vivendo ci trasformerà in campioni di velocità ed efficienza nonché in individui con una capacità cognitiva notevolmente potenziata, quasi tanto da dover annunciare una metamorfosi in superuomini e superdonne! Se il potentissimo congegno che l’uomo ha creato uscendo dalla caverna dell’oscurità e appropriandosi della fiaccola della conoscenza ci permette di essere collegati con tutti i punti del nostro universo, mi chiedo: “Cosa turba l’umanità e me PKer, piccola molecola in questa galassia impazzita?”.

Ogni mattina mi alzo ed elenco nella mia mente tutti gli innumerevoli vantaggi di svolgere la mia attività lavorativa a casa: le call via Zoom con i miei colleghi, le chiamate di coordinamento ed aggiornamento, i webinar messi a diposizione da PK, i meeting con i clienti, il tutto godendo dell’infinito comfort che mi regala la mia mise fatta di ciabattoni e tuta (che farebbe accapponare la pelle ad un modaiolo) e della compagnia degli snack appostati dietro al desktop da azzannare quando il wi-fi va giù e la webcam si oscura!

Eppure ogni dì ed ogni notte mi affaccio pensierosa al balcone a salutare una silente Milano dal volto tediato da una inusitata inoperatività, una città che solo qualche mese fa era un “gomitolo di strade” in cui migliaia di persone indaffarate, preoccupate, felici, sole o in compagnia si tuffavano. E poi con me, dietro i vetri dei palazzi, in ogni piccola tana urbana, scorgo sagome evanescenti che, come me, guardando il cielo ceruleo nella sua perfezione ieratica o la luna nella sua monumentale bellezza, sospirano, imprecano e pregano nella speranza di riavere quella imperfetta e fragile vita solo poco tempo fa agilmente destreggiata.

E mi sovviene di nuovo la domanda: “Cosa ci fa preoccupare se possiamo muovere le fila del mondo, da agili burattinai quali siamo, stando comodamente seduti su di una poltrona con un laptop sulle gambe? Di cosa sentiamo la mancanza tutti noi piccoli congegni imperfetti così impazienti e così imperiosi?

Ecco che subito si palesa alla mia mente ciò che neanche le intelligenze più eccelse sono riuscite a cristallizzare in una definizione, ciò che può essere descritto solo per antitesi: l’”emozione” che scaturisce dal contatto umano. Emozione che impregna l’habitat in cui sono solita lavorare, quello spicchio di mondo in via Restelli fatto di voci, mimica, parole, respiri, odori e tutti gli infiniti modi con i quali gli esseri umani «commerciano» la loro vita quotidianamente tessendo quella intricata ragnatela di relazioni umane. Tutto quel fervore si è tramutato in brace ardente durante le conference call che riuniscono i PKers ogni venerdì mattina da più di un mese, meeting serbatoi di energia e positività, di leadership e team building, il tutto tradotto in un vorticoso mix di immagini virtuali di sorrisi, battute sagaci, espressioni perplesse, ridenti, preoccupate e rassicuranti.

Dunque quelle fila mosse sapientemente dall’uomo possessore di “virtute e canoscenza” (Dante – Inferno), ormai lontano dall’”età della pietra e della fionda”, sono l’unico elemento a far girare il mondo oppure nascondono un perentorio bisogno di comunicare emotivamente?     

Ogni giorno, quindi, come quegli spaventati porcospini raccontati da Schopenhauer che dovettero ricercare la giusta posizione per non pungersi ma proteggersi insieme dalla pioggia, noi tutti siamo chiamati ad esercitarci per trovare i giusti passi di una danza da ballare in maniera sincrona ed armoniosa con tutti i nostri compagni di viaggio, una pratica che richiede un titanico sforzo ma che sola ci fa comprendere che non dobbiamo “mandare a chiedere per chi suona la campana perché essa suona per te”, suona per tutti noi! È proprio il rintocco di quella campana che penetrando nel nostro “io” viene decriptato da un alfabeto mistico e si tramuta in emozione, voce della nostra comunicazione. Una voce fatta di parole che ci fanno appropriare dei nostri sentimenti e ci consentono di uscire dalla nostra solitudine, permettendoci in tal modo di volgere lo sguardo dentro di noi e fuori di noi per avere una visione poliedrica sul mondo.

E dunque riflettendo sul fatto di non voler finire come il matto cantato da De Andrè che aveva un “mondo nel cuore e non riusciva ad esprimerlo con le parole” allora, cari lettori, io direi sì di usufruire dei nostri formidabili strumenti tecnologici ma al contempo di “imparare a far di tante solitudini un giorno di festa” ed amare tutto ciò che ci rende “uomini” e tutto ciò che facciamo giorno dopo giorno!

Eva Lionetti – Junior Consultant

 

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